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Iris Tondo
MOSTRA ARCHITETTURA

Fuga in A Minore. Sette paesaggi tra natura e architettura: 2006-2012
In mostra i disegni di Claudio Scaringella
mostra  ACQUARIO ROMANO/UNIVERSITÀ LA SAPIENZA, dal 20/03/2012 al 21/04/2012

CLAUDIO SCARINGELLA
FUGA IN AMINORE
 
SETTE PAESAGGI TRA NATURA E ARCHITETTURA : 2006 – 2012
A cura di Francesco Moschini

Si inaugura martedì 20 marzo una mostra dedicata a Claudio Scaringella, incentrata su un corpus unitario di lavori di grande formato che trasferiscono nella nuova dimensione un universo figurativo che l’autore porta avanti da oltre trent’anni come riflessione teorica parallela alla sua attività progettuale. La mostra è articolata in due sedi, quella dell’Ordine degli Architetti e quella della Facoltà di Architettura, secondo un criterio processuale, vale a dire che in Facoltà vengono esposti i disegni di piccolo formato propedeutici ai raggiungimenti finali, presso l’Ordine sono invece esposte le sette grandi tavole su lucido nonché le sette tele trattate su cui i lucidi sono stati trasferiti, manipolati e rielaborati con infittimenti e inspessimenti materici e cromatici. I sette lavori presentati oltre che trasferire in una dimensione monumentale l’universo figurativo dell’autore ostinatamente proteso a porsi come curioso esploratore di mondi paralleli, con i suoi ossessivi ritorni, abbandoni e riprese quasi a rimandare sempre oltre il raggiungimento di elementi di definizione quasi nulla dovesse concludersi in maniera ultimativa, sembrano porsi come vere e proprie lezioni “sulla visione” perché è proprio “sul vedere” che Claudio Scaringella imposta i propri paesaggi d’invenzione. Lo stesso modo di accompagnarci, di farci entrare nella lettura del palinsesto grafico è studiato secondo un’idea di variazione continua quasi a costringerci ogni volta ad attrezzarci diversamente se non a scardinare ogni possibile assuefazione. Si passa così dalla radente veduta a volo d’uccello dello smisurato sistema trilitico che ci trasporta verso e oltre i limiti fisici dell’opera alle stratificazioni di un mondo di sovrapposizioni di giochi froebeliani arricchiti e resi complessi per togliere loro quella respingente laconicità che solo in una dimensione infantile potevamo accettare e trovare piacevole, al vertiginoso arrivo in primo piano come un treno in corsa di quella memoria di acquedotto reso abitato nella sua articolata diversificazione degli ordini sovrapposti, alla grande muraglia che secondo una diagonale che si contrappone alla precedente ordina e invita pur essendo intrappolata, bloccata e raggelata da un blocco smisuratamente grande che ne fissa un ideale centro cui attorno si costruisce per proliferazione spaziale un imbozzolamento da paziente elaborazione di un baco da seta costruttore di paesaggi, alla grande macchina belvedere, resa macchina celibe, di cui affiora nel foglio solo la parte terminale collassata nella sua duplicità di perfetta e levigata esibizione di una primordiale tecnologia intaccata da più naturalistiche concrezioni, alla civetteria di un paesaggio graziosamente sollecitato da improbabili alture artificiali e naturali da cui fuoriescono come improvvise folgorazioni turriti elementi elicoidali, disassati come sbilenchi reperti del Sacro Bosco di Bomarzo, impermeabili strutture totemiche volutamente protese a negare l’ascensionalità illimitata della brancusiana colonna infinita o tentativi di radicamento architettonico reso nell’estrema labilità del puro appoggio sul declivio, infine, chiude la sequenza l’apparizione, in primo piano di una sorta di “Montagna Sacra” che per estrusioni successive potrebbe innalzarsi sempre più ma nel suo rovesciamento verso la ribalta visiva sembra offrirsi nella sua condizione di grande frammento e non può così che costringerci, nel suo rispecchiamento della volta celeste, a limitarci alla nostra unica condizione di spettatori muti portati ad accettare la nostra condizione di “impossibilità”. Come sempre anche in questa occasione espositiva l’intero percorso della ricerca “privatissima” di C. Scaringella si presenta come una sorta di costrizione a darsi come “continuo lavoro interrotto”, volutamente lasciato nella stessa condizione di instabilità e di precarietà con cui si presentano gli oggetti, le cose che compaiono nel suo universo di riferimento. Nello stesso tempo però altre figure del suo immaginario puntano decisamente su una sospensione, se non su un immobilismo, davvero sorprendenti per un autore che ha fatto invece della concitazione, del sovvertimento degli equilibri  il suo punto di forza. Ecco chiarirsi allora il senso che l’autore assegna al suo lavoro, che proprio perché si vuol dare come ipertesto del tutto artigianale ed autobiografico, deve puntare su repentini scambi di ruoli, di senso delle cose, di metodologie del fare, di motivi e di tecniche. In una sorta di instabile nomadismo propenso alla sperimentazione, di ricercata disidentità, se non di spiazzamento di se stesso in quanto autore, rifuggendo anzi da una romantica idea di autorialità, egli può confrontarsi con opposte polarità all’interno del suo stesso lavoro. Ma nello stesso tempo l’autore non esita a ricorrere alla densità cromatica e pittorica, certo non per amore di una vagheggiata collocazione del suo modus operandi all’interno di qualche corrente artistica figurativa, quanto piuttosto per sottolineare con quel tipo di pittura, a volte persino sfrontata nel suo essere stesa velocemente, quasi negandosi ogni bellezza residuale, una sua idea di antigrazioso, di poco accondiscendente, per niente consolatorio, che il suo ricorrente primitivismo formale e tecnico tendono ad accentuare. Ma gli stessi riferimenti cui ho fatto ricorso per spiegare l’opera di C. Scaringella, poco chiariscono se non teniamo presente il suo continuo “allontanarsi” dalla privilegiata condizione di appartenenza alla elitaria compagine della ricerca artistica e architettonica, come uno sciamano, con un ruolo però riconosciuto tra i suoi adepti, egli si costringe a ruoli e visioni profetiche che vanno soltanto interpretate, decifrate e che ciascuno tenderà a ricondurre nell’alveo che più gli sembra congeniale. Da ciò, da parte dell’autore  la predilezione per la frammentarietà di una zoomata che riconduca però lo stesso esercizio artistico-architettonico ad una dimensione etica. L’autore insegue pertanto la vagheggiata armonia tra corpo e ragione, tra reale e immaginario, tra artificio e natura, coinvolgendo la dimensione onirica, la sua vena più surreale, ma senza preoccuparsi di contaminarla con una propensione metafisica. Il ricorso all’archetipo si contamina con il mito, con la continua allusione ad una dimensione paradossale in cui il “sorprendente” si alterna all’improvvisa e poetica apparizione, la fatica e il peso della costruzione alla forza ed alla brutalità del lavoro, la dimensione solare a quella più tenebrosa, il troppo vicino allo squadernamento visivo da aereopittura, la forza dell’antico che avanza alla dirompente sconnessione del nuovo che non riesce a darsi come tale.
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