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Conversazione con lo studio ARCò Architettura & Cooperazione
Ritornare a pensare l’architettura come mezzo per soddisfare bisogni primari
Autore: eleonora usseglio prinsi
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02/09/2013 – Vincitori del Premio Fondazione Renzo Piano 2011, ARCò Architettura & Cooperazione è il giovane studio di architettura under 40 fondato da Alberto Alcalde, Alessio Battistella, Carmine Chiarelli, Valerio Marazzi, Diego Torriani e Luca Trabattoni.

In seguito ad una prima esperienza progettuale in Mozambico nel 2007, promossa da Vento di Terra Ong, lo studio inizia un percorso di cooperazione internazionale per affrontare e risolvere problemi in situazioni di emergenza. Dal 2009 al 2012, realizzano tre scuole in Palestina - La scuola di Gomme, la Scuola nel deserto e La scuola di sacchi di Terra.
I loro progetti declinano criteri di sostenibilità incentrandosi sull'accezione sociale, attraverso processi che incrementino l’auto-costruzione da parte degli abitanti e la scelta di impiegare tecniche volte al riciclaggio e all'uso di materiali poveri.

Il vostro studio da sempre si è occupato di progetti fortemente coinvolti nell’ambito sociale, qual è secondo voi il ruolo dell’architetto all’interno della società contemporanea?

Nella conclusione del saggio “Per una architettura integrata”, Walter Gropius scrive “Abbiamo cominciato ad intendere che modellare il nostro ambiente fisico non significa applicarvi uno schema formale fisso, ma vale piuttosto un continuo, interno sviluppo, una convinzione che va continuamente ricreando il vero, al servizio dell’umanità.”

Partendo da questa citazione crediamo che l’architetto abbia sempre avuto il medesimo ruolo all’interno della società ad esso contemporanea. Sono però le società ad essere in evoluzioni e quindi a plasmare le riposte che l’architetto deve ricercare per la risoluzione di problemi contingenti legati all’abitare. La crisi economica, ma prima ancora i contesti dove abbiamo operato fino ad ora, ci hanno costretto ad una riflessione profonda sulla centralità di una architettura al servizio dell’umanità, al servizio di bisogni primari a cui dare una risposta in breve tempo e soprattutto con costi contenuti.

Quale progetto ha rappresentato per voi la sfida più ardua come progettisti?

Ad oggi crediamo che la sfida più complessa sia stata la progettazione e realizzazione della scuola ribattezzata “La Terra dei bambini” nel villaggio di Un Al Nasser, nella Striscia di Gaza. Come per le scuole realizzate in precedenza, la tecnica costruttiva, earthbags, è stata scelta ad hoc per questo progetto.

Oltre alla complessità dello sperimentare una nuova tecnica, la sfida prefissata era quella di realizzare un edificio in coerenza con la filosofia Low Tech sviluppata fino a quel momento, ma contemporaneamente avere una attenzione maggiore al dettaglio architettonico e quindi all’aspetto estetico. Critica che ci è stata mossa in occasione della consegna del “Premio Fondazione Renzo Piano” nel giugno del 2011 proprio dall’architetto Piano in riferimento alla Scuola nel Deserto di Abu Hindi.
In oltre non va dimenticata la complessità impiantistica di questo progetto, dotato infatti di un sistema di pannelli fotovoltaici integrati nella copertura, e di un sistema di fito-depurazione delle acque che disegnano la corte interna. La collaborazione con lo Studio MCA è stato importante in fase di progettazione per il dimensionamento e la risoluzione delle questioni tecnico impiantiste e il confronto sul progetto con uno studio ben più consolidato e affermato di noi.

Mai come nella Biennale 2013-Common Ground, anche grandi architetti del calibro di Norman Foster, si sono interrogati su temi quali le comunità informali, autocostruzione e “architettura povera”.
Quale pensiate possa essere la direzione che prenderà l’architettura soprattutto in questo periodo di recessione economica?

A nostro parere la recessione economica deve essere trasformata in una occasione. Bisogna necessariamente ripensare alle regole che ci hanno portato in questo che ormai sembra un vicolo cieco. Anche l’architettura deve recuperare il suo valore sociale, che nasce da istanze reali. Facendo riferimento all’ultima Biennale di Architettura, noi abbiamo avuto l’onore e il piacere di essere presenti con un video sullo spazio pubblico esposto al Padiglione Italia, curato da Luca Zevi, sezione reMADE, curata da Maria Luisa Palumbo.

L’elaborazione del progetto video presentato intende mettere in evidenza l’originalità nell’affrontare temi legati alla creazione di spazio pubblico risolto con una consapevole attenzione alla sostenibilità del progetto, sempre declinata nelle sue componenti sociale, ambientale e economica. Si è partiti con il riflettere sulla variabile fondamentale che rappresenta il contenitore di ogni spazio pubblico: il vuoto; quindi lo spazio tra le cose e la capacita del progetto di creare relazioni, innescare processi, dare nuove visioni. La ricerca si è concentrata su progetti in grado di essere resilienti al momento di crisi che stiamo attraversando e quindi di continuare a funzionare a dispetto di occasionali perturbazioni, o che considerano la perturbazione stessa occasione di progetto.

Tutti i progetti inseriti nel video sono esempi di organizzazione e sviluppo dal basso come lo sono state le scuole che abbiamo realizzato in autocostruzione in Palestina. Vedere questo temi trattati, non solo da noi, all’ultima Biennale di Venezia è stata la controprova che siamo sulla strada giusta e la dimostrazione di come il futuro del processo progettuale sia da ricercare nella collaborazione tra architetti, committenza e la popolazione, con l’obbiettivo di riappropriarci dello spazio dando a questo una funzione vitale ed aggregante.

Qual è stato il progetto più stimolante che avete realizzato durante la vostra carriera e perché?

Possiamo definire stimolante la scuola ad Al Khan Al Ahmar, conosciuta come Scuola di Gomme, perché è stato il progetto che ha avviato la riflessione che ci ha portato ad essere oggi quello che siamo e che proponiamo. L’incontro con la ONG Vento di Terra e la conoscenza della realtà dei Jahalin del campo beduin ci hanno costretto a fare i conti con un aspetto essenziale dell’architettura e cioè soddisfare un bisogno primario.

Molti stimoli sono arrivati dai tanti vincoli che si sono palesati gradualmente, per esempio: clima desertico; rapidità e semplicità costruttiva; costi minimi e manodopera locale non specializzata.
Da questi vincoli nasce un progetto che unisce semplicità e rapidità di realizzazione con elevata prestazione termica e statica. I muri sono stati realizzati con pneumatici usati riempiti di terra e la copertura in lamiera sandwich sorretta da travi in legno. Questa parte è stata realizzata in sole 2 settimane con un primo ridottissimo budget di circa 15.000 euro.

Altrettanto stimolante è stata l’esperienza di cantiere, condivisa con i beduini che hanno fisicamente realizzato la scuola e con i quali comunicavamo attraverso un “libretto” contenente una sorta di manuale di montaggio. Uno strumento questo che poi abbiamo utilizzato in tutti i progetti successivi. Spiegare il progetto non solo con disegni tecnici da cantiere ma anche attraverso la raffigurazione delle fasi realizzative ci ha dato un ulteriore stimolo e spunto di riflessione oltre che consapevolezza del processo che stavamo mettendo in moto.


  Scheda progetto: Wadi Abu Hindi school in the desert
Andrea&Magda Photographers
Vedi Scheda Progetto
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  Scheda progetto: The school of tires
ARCò
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  Scheda progetto: UUm al Nasser children centre - Gaza
ARCò
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