29/10/2019 - L'antico Casale di Santa Maria Nova, all'interno del Parco Archeologico dell'Appia Antica, a pochi passi dalla Villa dei Quintili, ospita la prima grande mostra che il maestro Gianni Berengo Gardin dedica alla città di Roma. Settantacinque scatti di cui 25 inediti, provini e materiale bibliografico sono i mattoni su cui l'allestimento di COR arquitectos con Flavia Chiavaroli si è strutturato.
Una finestra sul paesaggio, sulle persone, una finestra su 60 anni di società italiana.
Il racconto di Giuliano Sergio, curatore della mostra, sulla Roma di Giovanni Berengo Gardin inizia “ […] dalla seconda metà degli anni Cinquanta – spiega Sergio - , per la collaborazione col settimanale Il Mondo di Mario Pannunzio. Il suo legame con la Capitale in realtà è più antico: dal 1940 al 1947 a Roma Berengo Gardin ha vissuto gli anni dell’infanzia e della prima adolescenza, in una città-mondo in cui scopriva la vita, definiva le sue passioni, misurava i valori morali e civili declamati dal regime con i gesti quotidiani di una comunità che riuscì a restare unita nel momento del tracollo. Questa Roma anni Quaranta ha formato il ragazzo che in seguito, tra Venezia, Parigi e Milano scoprirà la passione, la professione e l’arte della fotografia.”
La narrazione, che prescinde dalla cronologia per seguire suggestioni, angoli di città, momenti di vita quotidiana, nel display si traduce con un gesto, l'apertura di una finestra che si apre sul Parco circostante, sulle fotografie del maestro e sulle persone.
Il paesaggio multi-stratificato inquadrato dalle aperture del Casale antico di Santa Maria Nova, invade le sale espositive sotto forma di colore, quello dei nuovi fondali che definiscono gli spazi delle cinque sale di mostra. Su questo tessuto si declina il frame, che ospita le opere fotografiche del maestro senza sovrapporvisi, le inquadra nelle nicchie, le lascia fluttuare in una mise en scene che si moltiplica negli specchi creando un piano sequenza senza fine, le sospende su elementi autoportanti che ne facilitano la fruizione intima, diretta, empatica. Allo stesso modo con elementi mobili l'allestimento mette in mostra il paesaggio circostante, inquadrandolo ed integrandolo alle memorie del fotografo sulla città. Lo scorcio sul paesaggio diventa così nuova memoria.
I materiali scelti sono grezzi, le pareti non sono lette come fondali piatti ma come scenari su cui impaginare gli scatti di Berengo Gardin. Da una spazialità inizialmente “controllata” al primo piano, si passa al mezzanino in cui si opera un vero e proprio sfondamento della sala: le pareti perimetrali specchiate moltiplicano all'infinito le fotografie sospese al centro della stanza, aprendosi in corrispondenza delle finestre per integrare il paesaggio circostante al racconto in bianco e nero del fotografo. Al secondo piano si ritrova un'atmosfera intima. I frame con le fotografie sono supportati da leggii reclinati e lasciano al visitatore la possibilità di dialogare con tutta la serie esposta come con la singola immagine, ad empatizzare con la luce e con le stratificazioni materiche delle mura del Casale, ad affacciarsi nuovamente fuori, traguardando la cornice verso l'esterno, in una prospettiva infinita.
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