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Mille di queste Domus
Dal 1928 al 2016. Raccogliendo l'eredità di Gio Ponti, nove direttori raccontano la loro Domus. Intervista col direttore Nicola Di Battista
Autore: roberta dragone
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Nicola Di Battista Nicola Di Battista
10/03/2016 - Fondata nel 1928 da Gio Ponti, Domus festeggia oggi il millesimo numero in edicola. Per l'occasione, tutti e nove i direttori che si sono avvicendati alla guida della rivista dopo Ponti, dal 1979 ad oggi, partecipano raccontando la loro Domus.

Alessandro Mendini, Mario Bellini, Vittorio Magnago Lampugnani, François Burkhardt, Deyan Sudjic, Stefano Boeri, Flavio Albanese, Joseph Grima e l’attuale direttore Nicola Di Battista. A loro si aggiunge Beppe Finessi, che ha selezionato 100 icone del design italiano che Domus stessa ha contribuito a rendere famose nel mondo.

Il direttore Nicola Di Battista ci racconta in un’intervista l'inedito progetto editoriale a più voci.

Domus, ieri, oggi e domani. Una storia di 88 anni che ha fatto storia. Quali sono le tappe più significative del percorso avviato nel 1928 da Giò Ponti e quali le prospettive per il futuro?

Quella di Domus è una storia straordinariamente italiana. E’ la storia della nostra modernità. Nasce negli anni ’20 per volontà di due giovani ventenni, Gianni Mazzocchi e Gio Ponti, che decidono di fondare una rivista. Una storia italiana quindi in duplice senso: un grande editore ed un grande architetto.

È la storia di un editore che fonda “La Casa bella”, diventata poi Casabella. Nel ’46, appena dopo la guerra, fonda un giornale perché non ci siano più guerre, l’Europeo. Poi il Mondo, diretto da Pannunzio, e negli anni ’50 l’Espresso e Quattroruote. È una storia che si è sempre rinnovata.

Domus è un fatto unico al mondo: ha cambiato direttori ma dal punto di vista della proprietà, in tutti questi anni il passaggio della casa editrice è avvenuto una sola volta. Nel DNA di questa testata esiste davvero lungimiranza e il sapersi rinnovare.

Domus, numero 1000. Un traguardo importante destinato a restare nella storia. Ci racconta in breve l’inedito progetto editoriale?

Il mio editore ha avuto un’idea che ho subito condiviso. La particolarità di Domus è che dopo Ponti si sono alternati diversi direttori per una sola stagione o per alcuni anni. In tutto nove. Ci siamo allora chiesti: perché non facciamo un numero con i 9 direttori? Un numero inedito, a più voci, richiamando gli otto direttori passati, me compreso. Sono stato al gioco, anche se non potevo far finta di non essere il direttore. Per me il gioco è stato mettermi dentro come dall’esterno. Questo gioco è stato possibile grazie alla curatela di Fulvio Irace e a Italo Lupi, che ha curato il progetto grafico. Ad ogni direttore è stata lasciata la libertà di immaginare un certo numero di pagine in maniera del tutto indipendente, non solo nei contenuti, ma anche nella grafica. Per questo è un numero sui generis, davvero speciale.

L’incontro con gli altri direttori è stato davvero singolare. Mettere insieme persone così diverse è stata una vera scommessa, che oggi credo vinta. Dà conto della specificità che Domus ha rappresentato e rappresenta.

Negli anni 90, all'epoca di Mario Bellini e Lampugnani, è stato vicedirettore di Domus. Cosa le ha insegnato quell'esperienza e in che modo ha contribuito alle scelte che ha intrapreso successivamente come direttore?

L’esperienza degli anni ’90 mi ha sicuramento cambiato. Il mio mestiere è quello dell’architetto. Sono di origine abruzzese, con studio a Roma. Ho fatto un apprendistato di 5 anni a Milano, presso lo studio Giorgio Grassi. Appena quarantenne sono stato chiamato da Bellini e poi da Lampugnani. Sin da allora ho lavorato alla rivista come se stessi lavorando ad un progetto. L’impegno teorico e fisico erano simili. Lavorare in un giornale particolare e specialistico come Domus è stata per me una scuola, oltre che una gioia. Mi sono misurato con discipline che non erano proprio mio dominio, come il design, ma ho cercato di imparare e credo per questo che la mia formazione di architetto si sia molto arricchita in quegli anni. Sono stati anche anni in cui ho conosciuto persone con cui ho stretto legami di amicizia ancora oggi fortissimi, come quello con Souto de Moura.

Tutto questo è diventato ancora più forte con la direzione di Lampugnani. In quel periodo siamo riusciti a fare un lavoro davvero importante. Ricordo che aggiungemmo una rubrica dal titolo un po’ cervellotico ma non male: “Questioni e materiali”. Già negli anni ’90 sentivo urgente il bisogno di aggiungere contenuti alla rivista. Non solo pubblicare progetti ma indagare tutto quanto serve per progettare.

Ci racconta, se c’è, un ricordo particolarmente significativo di quel periodo?

Ci sono molti aneddoti, ma voglio ricordarne uno che riguarda una persona tra le più straordinarie che abbia cosciuto, il grafico Alan Fletcher, fondatore del gruppo Pentagram. Era stato chiamato per dare un nuovo concept alla rivista ed ebbe anche il compito di disegnare le copertine. Ricordo che abbiamo fatto insieme un gioco: io gli davo un tema e lui su quello realizzava la copertina. Ne ricordo due in particolare. Erano anni in cui non si capiva più cosa volesse fare l’architettura e cosa l’arte. Gehry disegnava a Barcellona un’architettura a forma di pesce mentre l’artista danese Kirkeby realizzava una scultura in mattoni. L’ispirazione furono degli articoli che avevo scritto in quel periodo dal titolo “Il sapere dell’ingegnere”, “Il sapere dell’artista” e “Il sapere dell’architetto”. Alan realizzò una copertina che si chiamava “Il sapere dell’artista’. Ritagliò dei fogli di carta colorata a forma di frutti diversi, e su ciascuna forma scrisse un nome che corrispondeva al frutto sbagliato. Scrisse in fondo “Licenza poetica”. Un’altra volta disegnò la torre di Pisa, raddrizzandola, e scrisse in fondo alla copertina “La vita dipende dal punto di vista”. Lo trovo straordinario. Quando ci penso sorrido ancora.
 
 

Che reazione ha avuto quando ha appreso di essere stato scelto per la direzione di Domus?

Se qualcuno negli anni ’70 mi avesse detto sarai direttore di Domus non ci avrei scommesso un euro, ma confesso che negli anni ’90 la speranza la nutrivo. Nonostante questo, la realtà è sempre più forte dell’immaginazione. Quando mi è stato proposto non ci credevo, non stavo nella pelle.

Mi sono subito posto la questione delle responsabilità. Era un periodo in cui eravamo completamente dentro la storia dei new media, che hanno cambiato e stanno cambiando il mondo. Era tornata ad esserci una guerra tra generazioni, giovani e anziani. Si diceva “la carta non serve più” e qualcuno usava anche termini non proprio eleganti come “rottamazione”. È vero che i media stanno cambiando il mondo, ed è vero che abbiamo bisogno dei media, ma gli uomini hanno sempre bisogno di vivere in maniera concreta e non c’è tecnologia che possa surrogare questo bisogno. In tal senso penso alla frase di Edoardo Souto de Moura Quando sfoglio il giornale mi piace sentire il rumore della carta. Sono passati 3 anni e possiamo dire che quella tra media e carta non è assolutamente una guerra.

Da settembre 2013 ha inaugurato un nuovo concetto di direzione chiamando al suo fianco un “Collegio dei Maestri” e un “Centro Studi” di giovani professionisti. Ci racconta il perché di questa precisa scelta?

Mi sono subito chiesto ‘cosa vuol dire fare una rivista cartacea e di cosa ha bisogno?’
In redazione ho trovato giornalisti bravissimi e non ho avuto l’esigenza di rinnovarla. Ho trovato un grafico straordinario, Giuseppe Basile, con cui avevo già collaborato negli anni ’90. La casa editrice non ha mai cercato di entrare nel merito dei contenuti.

Ciò di cui avevo bisogno erano le discipline. Ho voluto con forza in un momento in cui la parola d’ordine era archistar, dei 'maestri', alcuni dei maestri perché credo che ognuno debba scegliere i propri. Mi sono rivolto agli amici, a quelli cui sono legato da 30 anni di lavoro insieme, David Chipperfiled, Hans Kolhoff ed Edoardo Souto de Moura. Ma avevo anche bisogno di qualcuno che fosse il numero uno della storia. E ho chiamato Kenneth Frampton, tra gli storici più importanti che abbiamo oggi.

La squadra era quasi fatta, ma avevo bisogno anche di un erudita, perché io sono un architetto, e l’ho trovato a Zurigo, dentro una biblioteca pazzesca, di arte e architettura, dal 500 ad oggi: Werner Oechslin. Avevo bisogno di persone che mi stessero vicine, e l’ho chiamato ‘collegio dei maestri’.

Ma non mi era sufficiente. Avevo anche bisogno di persone più giovani, anche se non giovanissimi, che potessero dare la freschezza di un punto di vista differente. Ho scelto tre architetti e un ingegnere, tutti quarantenni, con cui avevo un passato di collaborazione. Un centro studi deve assolutamente poter svolgere attività ai passi col nostro tempo.

Qual è il suo pensiero sullo stato dell'architettura oggi?

Non sono molto contento di quanto si produce oggi in architettura. Ma questo non dipende solo dagli architetti, ma anche dal ‘sistema paese’. Se all’architetto manca una buona committenza, un buon imprenditore, un buon contesto di regole, non funziona. C’è stato un momento in Italia in cui tutto questo lo abbiamo avuto. Negli ultimi 20-30 anni questo non è successo.

Il mio sentimento rispetto all’architettura contemporanea è di questo tipo, anche se il prodotto in sé è di alta qualità. Di contro, penso che viviamo un momento incredibile, in cui si può passare da un’epoca a un’altra; da un passato che stenta a morire ad un futuro che stenta a farsi strada. Spero che questo momento duri il meno possibile perché più dura e più bruciamo generazioni.

Quale ricordo vuole che resti della sua Domus?

Vorrei che fosse ricordata come una rivista densa di lavoro, che faccia vedere pagina dopo pagina il lavoro che c’è dietro. Mi piacerebbe che restasse un prodotto che non si esaurisca nel mese in cui esce, ma che possa stare sempre bene sulla scrivania, con contenuti sempre attuali e mai invecchiati. Come è successo per molte riviste, come la Casabella di Rogers degli anni ‘50 e ‘60 quando la rivista si chiamava ‘Casabella-Continuità’, come la Domus del dopoguerra di Rogers dal titolo ‘La casa dell’uomo’. E come la Domus di Ponti. Vorrei che diventasse uno strumento da tenere in biblioteca.

Cosa non ha ancora fatto e vorrebbe fare come Direttore di Domus?

Tantissime cose! Avrei bisogno almeno di altri vent’anni per fare tutto!
Ma c’è una questione che mi sta particolarmente a cuore. Prima di tutto la questione giovani, oggi completamente disattesa nel nostro paese. I giovani non hanno bisogno né di regali, né di una strada ovattata. Abbiamo la responsabilità civile di creare i presupposti perché un giovane possa essere giovane, e per questo la formazione è per me centrale. Vorrei per questo trasformare la mia Domus da rivista di progetto, a rivista per il progetto. Laddove ‘progetto’ è da intendere in senso non tecnico ma civile. L’uomo progetta la propria vita. La nostra disciplina progetta i luoghi e gli spazi per viverla meglio.



© Alan Fletcher


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